Translated from “Restoration of function after brain injury” by Aleksandr Romanovič Luria, pagg. 223 – 262, Pergamon Press – now Elsevier (1963), all rights reserved
1. I principali fattori che determinano il successo del ripristino della funzione
Abbiamo studiato il complicato processo del ripristino delle funzioni cerebrali disturbate attraverso la loro riorganizzazione. Ci resta da analizzare l’ultimo problema essenziale, di grande importanza sia teorica che pratica.
La ricostituzione delle funzioni cerebrali danneggiate non si realizza in tutti i casi con lo stesso successo. Talvolta la funzione cerebrale disturbata viene ripristinata molto velocemente, e dopo un breve periodo di tempo il medico riesce solo a stento ad individuare un difetto funzionale residuo. In altri casi il ripristino della funzione cerebrale danneggiata si trascina per un lungo periodo di tempo. Da ultimo, talvolta la funzione disturbata potrebbe non ripristinarsi affatto, ed il difetto è irreversibile.
Come possiamo spiegare le differenze nella velocità e nel successo del ripristino delle funzioni cerebrali danneggiate?
La neurologia classica non riesce a fornire una risposta soddisfacente a questa domanda. Di regola nella pratica clinica sono due i fattori principali che determinano un diverso grado di ripristino delle funzioni nei diversi casi: le differenze nella natura dell’insulto, e le caratteristiche pre-morbose della personalità.
A parità di condizioni, sappiamo che la gravità dell’insulto cerebrale, il volume di tessuto colpito, e la presenza di complicanze post-lesionali sono fattori da cui dipende il successo del ripristino delle funzioni cerebrali danneggiate. Per ragioni ormai perfettamente chiarite, il difetto sarà molto più stabile nei casi in cui le lesioni sono gravi, estese, e complicate da suppurazione o infiammazione rispetto ai casi in cui ferite con localizzazione simile hanno un decorso asettico e non causano ampia distruzione di tessuto cerebrale. Per questo motivo, i difetti della funzione possono andare velocemente incontro a restituzione nelle lesioni perforanti causate da proiettili, con ferite che provocano solo un canale relativamente ristretto, e a cui non fanno seguito complicazioni; d’altra parte le lesioni simili ma complicate, determinano un’ampia distruzione di tessuto corticale e sottocorticale, e spesso determinano difetti durevoli che solitamente non vanno incontro a regressione. Ovviamente è necessario prendere in considerazione la natura della ferita per stabilire una prognosi relativa al ripristino delle funzioni cerebrali disturbate.
Il secondo fattore che influenza la velocità e la completezza della restituzione di un difetto è la condizione del cervello precedentemente alla lesione. A parità di cose, sappiamo che il cervello di una persona giovane ha maggiori potenzialità di compensare il difetto e di ripristinare le funzioni disturbate rispetto al cervello di una persona anziana con una circolazione cerebrale difficoltosa e che ha perduto parte della sua plasticità originaria. Le osservazioni condotte sulla compensazione dei difetti in fanciulli che hanno subito operazioni al cervello in età relativamente precoce, insieme all’analisi dei disturbi di funzione spesso insignificanti che si verificano nei tumori cerebrali precoci e a sviluppo lento, indicano nell’età un fattore importante nel processo della restituzione dei difetti.
Questi due fattori clinici, anche se giustificati, non spiegano tutto. Il livello attuale delle nostre conoscenze necessita di prove molto più concrete e di un ulteriore sviluppo di queste influenze in conformità con le nostre concezioni sulla modalità del ripristino di funzione di cui ci dobbiamo occupare, e sulla valutazione psicologica del disturbo della funzione causata dalle ferite in una determinata situazione. I fattori che influenzano il successo del ripristino delle funzioni disturbate possono essere numerosi, sia per le differenti modalità di compensazione del difetto, sia per le differenti caratteristiche del disturbo a carico dei sistemi funzionali del cervello.
Prenderemo in considerazione ognuno di questi fattori.
Come abbiamo mostrato in precedenza, si possono distinguere tre modalità di ripristino di una funzione cerebrale disturbata da una lesione: il ripristino può realizzarsi attraverso la deinibizione di funzioni temporaneamente depresse, attraverso l’utilizzo di meccanismi di sostituzione messi in atto dall’emisfero opposto, e attraverso una radicale riorganizzazione dei sistemi funzionali. Naturalmente i fattori concreti che determinano l’entità del successo ed i limiti del ripristino saranno molto differenti in ognuno di questi casi.
Quando una ferita causa l’inibizione temporanea di un determinato sistema funzionale e non lo distrugge completamente, la possibilità di ripristino (o la deinibizione) della funzione dipenderà primariamente dalla profondità e dalla natura dei processi sottostanti la fissazione del difetto.
Per esempio, se le anomalie nell’eccitabilità e nella conduttività del tessuto nervoso sono associati ad un edema che si sviluppa subito dopo il ferimento, l’inibizione potrebbe scomparire piuttosto velocemente e la funzione potrebbe ritornare completamente, non appena l’edema si risolve. Se la causa che determina l’inibizione della funzione è la presenza di uno stimolo patologico costante che raggiunge la corteccia cerebrale e che origina da un fattore patogenetico permanente (una cicatrice o il frammento di una granata), questa inibizione potrebbe protrarsi indefinitamente e si risolverà solo dopo la rimozione della causa. Da ultimo, quando i fattori che stabilizzano il difetto sottostante si uniscono all’inibizione protettiva, e si associano alla prospettiva mentale del paziente (come nel caso delle fasi finali del sordomutismo reattivo post-commotivo), il ripristino della funzione potrebbe farsi attendere a lungo e solo il ricorso ad una psicoterapia adeguata può permettere il raggiungimento di un successo apprezzabile.
Fattori piuttosto differenti sono quelli che determinano i limiti del ripristino di una funzione cerebrale danneggiata quando una ferita non determina soltanto l’inibizione temporanea di funzioni di singoli sistemi del cervello, ma distrugge anche certe aree del cervello, caso in cui, il ripristino di queste funzioni alterate coinvolge il trasferimento della funzione ad altre aree (di solito simmetriche) del cervello. Il successo del ripristino della funzione disturbata qui dipende da due condizioni fondamentali. Esso è connesso, primariamente, al grado di conservazione dell’emisfero integro (di solito il destro), e secondariamente, dalla sua attitudine individuale a sostituire il sistema funzionale danneggiato e ad essere responsabile della sua realizzazione.
Se l’emisfero simmetrico non lesionato non è adeguatamente conservato a causa del contraccolpo o a causa di un disturbo vascolare, la sua possibilità di sostituire la funzione alterata è limitata, ed il difetto stesso diventa molto più stabile. D’altra parte, se per i motivi menzionati in precedenza l’emisfero “integro” dimostra un certo grado di disponibilità a prendere parte all’esecuzione di una particolare funzione (come per esempio nei casi di mancinismo latente, dove l’emisfero destro prende prontamente il controllo di azioni come il linguaggio, la scrittura e così via), il ripristino di anomalie di funzione anche grossolane potrebbe essere portato a compimento con successo. Al contrario, nei casi di dominanza marcata dell’emisfero sinistro colpito, il ripristino delle funzioni ad opera della sostituzione dell’emisfero opposto potrebbe essere molto difficile, e di solito il difetto è molto persistente.
Questi sono i fattori che determinano il successo del ripristino di una funzione disturbata attraversola sostituzione. I fattori che determinano il successo del ripristino attraverso la riorganizzazione dei sistemi funzionali sono completamente differenti. In questi casi possiamo distinguere almeno tre gruppi di fattori che determinano la prognosi del ripristino della funzione dopo che essa ha subito un’anomalia a causa di una lesione. Il primo è la gravità e l’estensione della lesione cerebrale, il secondo la struttura che la funzione disturbata aveva prima della lesione, ed il terzo il grado di conservazione della permanenza della motivazione, che spinge il paziente a lavorare sistematicamente per il superamento della sua disabilità. Menzioneremo brevemente i primi due gruppi ed esamineremo l’ultimo in maggiore dettaglio.
La gravità della ferita e l’ampiezza della lesione cerebrale che ne risulta rivestono un ruolo importante nel determinare il successo del ripristino delle funzioni per mezzo dei processi di riorganizzazione. Abbiamo mostrato in precedenza che la riorganizzazione viene ottenuta attraverso la creazione di sistemi funzionali nuovi, a cui partecipano aree del cervello fino a quel momento dedicate a funzioni piuttosto differenti. I casi in cui le operazioni di calcolo, eseguite in precedenza con la semplice evocazione di abitudini linguistico – motorie (come quando viene utilizzata una comune tabellina per le moltiplicazioni) cominciano a dipendere da schemi visivi oppure da riferimenti visivi a tabelle ausiliarie, potrebbero essere considerati come degli esempi di questa modalità di riorganizzazione. Naturalmente, perché il ripristino della funzione possa avere luogo con successo, la lesione cerebrale deve essere sufficientemente localizzata, e le zone corticali che devono essere incluse nel nuovo sistema funzionale devono essere integre. Al contrario, quando le ferite multiple complicate da un processo patologico susseguente conducono ad una situazione in cui una zona del cervello necessaria per la riorganizzazione del sistema funzionale non conserva più la propria potenzialità funzionale originaria, il ripristino della funzione attraverso la riorganizzazione è estremamente difficile e la prognosi è infausta. Come esempio di lesioni particolarmente poco indicate per il ripristino di funzione attraverso la riorganizzazione, possiamo citare il caso in cui una ferita multipla abbia danneggiato simultaneamente le regioni temporali ed occipitali sinistre. In tali lesioni, il disturbo della scrittura associato ai difetti di analisi acustica della composizione sonora delle parole viene complicato dal fatto che il paziente non riesce ad immaginare chiaramente le forme visive delle lettere, né a distinguere un grafema dall’altro, né a ritenere le combinazioni visive necessarie dei tratti che formano le lettere. Difficoltà simili nel ripristino della funzione per mezzo della riorganizzazione del sistema funzionale potrebbero insorgere nelle ferite massive della regione della scissura di Silvio dell’emisfero cerebrale sinistro, che colpiscono simultaneamente le aree corticali frontale inferiore, temporale superiore e postcentrale. La “afasia totale” che insorge in questi casi ha solitamente una natura molto persistente, ed i tentativi per rieducarla si dimostrano inefficaci. L’inclusione di collegamenti cinestesici di supporto è impossibile a causa della lesione delle divisioni cinestesiche postcentrali della corteccia; né hanno successo i tentativi di trovare aiuto nella forma visiva dell’articolazione poiché è impossibile la differenziazione acustica tra i suoni. Se viene ottenuto un qualche successo, esso non si consolida, a causa della perdita delle strutture sonore consecutive che si associa ad una lesione dell’area di Broca. I casi in cui gli psicologi non riescono a trovare sistemi afferenti residui integri da utilizzare come punti di supporto per i sistemi che vengono riorganizzati sono quindi del tutto inadatti alla rieducazione.
Questa potrebbe essere la ragione per cui i casi più severi, e quelli che rispondono alla rieducazione con le difficoltà maggiori (come sottolineato da S. M. Blinkov, T. M. Mokhova ed altri), sono quelli in cui le lesioni corticali si accompagnano ad un danno a carico dei gangli sottocorticali. In questi casi viene ostacolata la formazione rapida di nuove connessioni funzionali tra singole aree della corteccia, ed il trasferimento delle abilità acquisite ai “livelli di sottofondo”, associati al sistema talamo – pallidale (N. A. Bernshtein), è impossibile, così che la riorganizzazione dei sistemi funzionali diventa molto difficile. Anche se il ruolo delle vie di conduzione del cervello è stato studiato in maniera ancora imperfetta, e certe indagini sperimentali hanno messo in dubbio la sua importanza, le osservazioni oggettive indicano che questo è un fattore essenziale anche se, dobbiamo ammetterlo, dovrebbe essere investigato ulteriormente.
L’ultimo fattore di questo gruppo è l’integrità delle divisioni “terziarie” complesse del cervello.
Più la ferita è vicina alle divisioni periferiche della corteccia (alle sue aree recettrici o effettrici), e meglio conservate sono le sue divisioni superiori secondarie e terziarie, maggiori sono le potenzialità di compensazione residue dei difetti insorti attraverso la riorganizzazione dei sistemi funzionali e la creazione di nuove connessioni funzionali entrola corteccia. Questaconservazione delle più complesse strutture “terziarie” della corteccia (e in particolare delle strutture di formazione più recente della regione temporo-parieto-occipitale, descritte qualche tempo fa da Flechsig come il “centro di associazione posteriore”) è una condizione essenziale per la compensazione dei difetti nella funzione delle zone più elementari della corteccia, ed anche dei difetti nella funzione delle divisioni secondarie (“zone di integrazione speciale”) connesse con l’organizzazione della gnosia acustica, visiva e cinestesica. La “riorganizzazione concettuale” della funzione disturbata di singole aree gnosiche della corteccia, cui abbiamo fatto riferimento sopra, può realizzarsi a patto che queste forme di integrazione superiori siano conservate. Al contrario, nei casi in cui la lesione di una di queste aree (per esempio, le divisioni secondarie delle regioni temporo-uditive oppure di quelle visuo-occipitali) sia accompagnata da un disturbo dei livelli superiori di integrazione neuropsichica, la creazione e la ritenzione di tali schemi concettuali compensatori è di solito molto difficoltosa, e al particolare difetto nella funzione di un dato sistema di percezione se ne aggiungono altri e più gravi. Il paziente spesso non è in grado di creare o di mantenere gli schemi concettuali interni o, in altri termini, non è in grado di formare relazioni complesse tra i singoli componenti della sua esperienza interiore – e un lavoro che coinvolga la riorganizzazione concettuale dei processi gnosici difettosi è molto difficile. Di conseguenza il ripristino della funzione disturbata per mezzo della riorganizzazione comporta considerevoli difficoltà nei casi di lesioni complesse come queste.
Il secondo gruppo di fattori che determinano il successo del ripristino di una funzione per mezzo della riorganizzazione del sistema funzionale è associato alla struttura premorbosa della funzione disturbata, e alle caratteristiche psicologiche premorbose dell’individuo.
Abbiamo precedentemente affermato che le varie funzioni del cervello (la lettura, la scrittura, il calcolo o la memorizzazione, l’orientamento spaziale, e così via) possono avere struttura psicologica molto differente. Dato che esse sono il risultato di uno sviluppo protratto nel tempo, esse si sono formate solo gradualmente, e ad ogni stadio della loro formazione acquisiscono nuove caratteristiche psicologiche. È sufficiente confrontare il processo della lettura in una persona che si trova solo all’inizio dell’acquisizione di questa abilità con il medesimo processo in un lettore esperto per vedere la grande differenza esistente nella loro struttura psicologica. Nel primo caso il processo della lettura delle parole consiste nel riconoscimento consapevole delle lettere e delle loro valenze fonemiche, nella loro combinazione in componenti sonori e letterari, e nell’introduzione di correzioni nella pronuncia delle lettere che sono determinate dalla loro posizione tra gli altri suoni della parola (indicati anche dalle lettere), e da ultimo, nella sintesi dell’intera parola, il cui significato diventa chiaro solo quando questo intero processo viene completato. In un lettore esperto la lettura presenta caratteristiche completamente differenti. Egli può spesso fare a meno di tutte la fasi che abbiamo descritto, e comprende semplicemente un ideogramma precostituito, che riconosce immediatamente con la vista; il processo dell’analisi acustica non vi prende parte.
Naturalmente ne consegue che la stessa lesione (per esempio una lesione della regione temporale sinistra) potrebbe comportare una disintegrazione radicale del processo della lettura in un lettore inesperto, ma potrebbe scalfire in maniera quasi insignificante il processo altamente automatizzato del riconoscimento degli “ideogrammi visivi”. Nei due casi il processo di ripristino della funzione disturbata seguirà linee differenti.
Se questa abilità è stata automatizzata prima della lesione, al paziente rimangono molte possibilità di compensare il difetto con i metodi indiretti (per esempio, utilizzando gli ideogrammi visivi), ma quando la funzione corrispondente viene disturbata in un lettore inesperto, che non ha ancora sviluppato le forme di automatizzazione di questa attività, questi metodi indiretti non sono disponibili. Nei casi come questi rimane un solo metodo per compensare il difetto – il lavoro sull’analisi della composizione sonora e letterale delle parole e sulla sintesi sonora della parola completa a partire dai suoi elementi costitutivi. Questo lavoro richiede che l’atto della lettura sia completamente consapevole, e coinvolge il paziente in operazioni altamente complesse. Il ripristino della funzione disturbata viene essenzialmente trasformata nel processo di costruzione di questa funzione a partire dai segni del tratteggio della scrittura, e naturalmente richiede che i sistemi del cervello lavorino in modo particolarmente accurato, procedendo con difficoltà quando il cervello è danneggiato.
La possibilità del ripristino di una funzione disturbata dipende quindi in maniera davvero considerevole dalla sua struttura psicologica premorbosa e dal livello premorboso del suo sviluppo. Questi fattori sono essenziali per fare una diagnosi fondata circa il ripristino della funzione.
La struttura premorbosa della funzione, disturbata in seguito ad una lesione cerebrale, non è l’unico fattore che determina i limiti della restituzione. Un fattore che riveste importanza quasi simile è rappresentato dalla costituzione psicologica premorbosa dell’individuo.
Gli psicologi possono eseguire facilmente delle distinzioni tra individui differenti. A cominciare dall’opera di Binet, sono state collezionate molte prove a dimostrazione del fatto che i tipi differenti di individui risolvono i problemi in modi diversi, e che se alcuni soggetti impiegano prevalentemente i metodi visivi, altri potrebbero preferire l’utilizzo di metodi cinestesici o linguistico – motori, e altri ancora potrebbero utilizzare schemi ausiliari astratti. Anche se queste peculiarità individuali non giocano un ruolo decisivo nella vita mentale normale (quando la loro importanza è secondaria rispetto all’organizzazione concettuale dei processi mentali), esse possono assumere un’importanza decisiva nella compensazione dei difetti dell’attività cerebrale che avviene attraverso la riorganizzazione dei sistemi funzionali. Si comprende perfettamente che nei casi in cui i danni a carico dei processi della scrittura, della lettura, della computazione o del calcolo geometrico possono essere compensati dall’introduzione di immagini visive ausiliarie, la loro nitidezza e la loro stabilità possono rivestire un ruolo decisivo nella compensazione di questi difetti. Un paziente con un’evidente disposizione visiva, che dimostra caratteristiche di eidetismo (la presenza di vivide immagini visive), possiede in questo talento il mezzo per superare il proprio difetto in modo più completo rispetto ad un paziente con uno sviluppo della rappresentazione visiva più flebile. Siamo a conoscenza di diversi casi che dimostrano come il processo di ripristino delle funzioni disturbate attraverso la loro riorganizzazione con l’inclusione della sfera visiva sia stato molto più efficace in quei pazienti che prima della lesione presentavano evidenza di eidetismo. Questi pazienti ricordano facilmente gli ideogrammi complessi delle parole scritte, trovano facilmente le parole che ricercano in un manuale, spesso ricordandole in grande quantità, riorganizzano velocemente le operazioni di calcolo sulla base dell’utilizzo di schemi ausiliari spaziali, e compensarono il loro difetto molto più velocemente rispetto ai soggetti che, a causa delle differenze individuali premorbose, non possiedono la stessa possibilità di utilizzare la propria rappresentazione visiva in questo modo.
Sono state riportate scoperte analoghe sulle differenze individuali relative all’inclusione dei processi acustici e cinestesici nella compensazione di un difetto.
Nonostante tutto ciò, i fattori connessi con la gravità della ferita cerebrale e con il carattere premorboso dei processi psicologici non contemplano tutte le principali condizioni che determinano il successo del ripristino delle funzioni disturbate. Il gruppo più importante è forse rappresentato dai fattori associati con gli aspetti della motivazione dell’attività che il paziente è capace di esprimere. Data l’importanza di questo gruppo di fattori, dobbiamo considerarli in maggiore dettaglio.
2. Il ripristino della funzione ed il problema della motivazione
Solo in rari casi, il lavoro sul ripristino delle funzioni per mezzo della riorganizzazione dei sistemi funzionali procede in maniera automatica, attraverso il diretto “adattamento” del paziente alla situazione nuova creata dal difetto. Di regola, nella stragrande maggioranza dei casi, la riorganizzazione dei sistemi funzionali avviene per mezzo di un processo di attività consapevole, rivolta alla compensazione di questo difetto. Il paziente deve essere consapevole del disturbo che sta alla base del suo difetto di funzione; dopo avere riconosciuto il proprio difetto, il paziente seleziona i metodi adeguati per la riorganizzazione della funzione disturbata; solitamente questi metodi diventano oggetto dell’applicazione conscia, e sono frequenti i casi in cui il ripristino di una funzione disturbata avviene per mezzo dell’applicazione conscia di quelle operazioni che nello sviluppo normale non raggiungono mai il livello della consapevolezza, e si sviluppano solo se essi sono applicati nella pratica. Uno degli esempi più chiari di questa attività conscia è il ripristino del disturbo dell’articolazione del linguaggio attraverso l’analisi di tutte le posizioni fondamentali dell’apparato articolatorio necessarie per la pronuncia di un determinato suono, e l’esecuzione conscia di queste regole articolatorie che normalmente non vengono riconosciute.
Questo processo attivo di ripristino di una funzione richiede naturalmente una grande volontà da parte del paziente, e la sua disponibilità ad effettuare un lavoro diligente. È quindi evidente, che la conservazione di una motivazione salda ed intensa, che stabilizza l’inclinazione del paziente a lavorare sulla compensazione del proprio difetto, rappresenta una condizione essenziale perché il ripristino della funzione disturbata abbia successo.
In tutti i casi sopra descritti, una lesione al cervello ha causato un disturbo di un qualche fattore necessario per l’esecuzione dell’attività mentale, facendo sì che una determinata operazione divenisse impossibile. Al paziente, tuttavia, rimane una chiara consapevolezza del proprio difetto, ed egli ha sviluppato un persistente bisogno di compensarlo. Solitamente, questa necessità di compensare il proprio difetto diventa uno dei principali motivi centrali e permanenti del comportamento del paziente, e la sua intera attività, supportata e guidata dall’istruttore, si trasforma in un lavoro intenso per il superamento del proprio difetto. Di regola, una tale applicazione diligente al lavoro viene coronata da un successo considerevole. Di conseguenza, la stabilità della motivazione ha rappresentato un fattore importante per il successo del ripristino delle funzioni disturbate.
Questa condizione fondamentale, tuttavia, viene alterata in maniera significativa in un gruppo di lesioni cerebrali che non abbiamo ancora discusso, e che dobbiamo a questo punto menzionare. Ci riferiamo alle lesioni massive dei lobi frontali del cervello.
Per lungo tempo la funzione dei lobi frontali è rimasta sconosciuta. Solitamente, nelle lesioni a carico dei lobi frontali dell’Uomo, gli investigatori non hanno osservato nessuna perdita apprezzabile a carico delle singole operazioni mentali; queste ferite di regola non erano accompagnate da paralisi o da turbe sensitive, ed esse non comportavano disturbi del linguaggio e difficoltà nella scrittura o nella lettura, e le funzioni gnosiche e la prassia rimanevano sostanzialmente intatte. Un esame psicologico attento, tuttavia, rivelava invariabilmente un fatto importante: le lesioni massive dei sistemi frontali si accompagnano ad un disturbo dei livelli più elevati dell’organizzazione della motivazione mentale dell’attività.
Esperimenti condotti sugli animali superiori, in cui le strutture dei lobi frontali stanno cominciando a rivestire un ruolo significativo, dimostrano che questa parte del cervello è importante per l’integrazione del comportamento dell’animale. Scimmie deprivate dei propri lobi frontali (come mostrato dalle osservazioni di Lashley, Jacobson ed altri) mostrano un disturbo apprezzabile della stabilità delle motivazioni e dell’organizzazione della propria attività finalizzata.
Esse possono eseguire facilmente dei compiti immediati, possono rincorrere il cibo senza esitazione, e riescono anche ad eseguire semplici manipolazioni finalizzate al raggiungimento del cibo se esso viene posizionato al di fuori del loro raggiungimento diretto. La stabilità della motivazione che guida il comportamento dell’animale, tuttavia, viene apprezzabilmente disturbata. Se l’esperimentatore nasconde l’oggetto per pochi minuti senza portarlo altrove, l’attività di ricerca attiva dell’oggetto nascosto (che sempre viene riscontrata nell’animale normale) diventa impossibile, e l’oggetto divenuto ora invisibile, viene perduto. Questa instabilità dell’intenzione, e l’impossibilità di determinare un comportamento diretto ad uno scopo, si manifesta anche per il fatto che le scimmie deprivate dei propri lobi frontali sono pressoché incapaci di eseguire un compito pratico costituito da diversi anelli consecutivi (per esempio, raggiungere un premio alimentare posizionato a distanza attraverso due operazioni ausiliarie, intraprese facilmente dagli animali integri); l’attività propositiva successiva si disintegrava in anelli separati, e la scimmia, che prendeva il bastone per mezzo del quale avrebbe potuto raggiungere il cibo, perdeva di vista lo scopo finale e cominciava a manipolare il bastone come se questo fosse stato un fine in sé stesso, mostrando pertanto un’instabilità del comportamento diretto ad uno scopo. Risultati simili sono stati osservati in esperimenti animali eseguiti da ricercatori Sovietici.
Se l’estirpazione dei lobi frontali negli animali superiori viene seguita da un netto disturbo del comportamento diretto ad uno scopo, le lesioni dei lobi frontali nell’Uomo disturbano in modo particolarmente evidente l’attività mentale superiore finalizzata.
Come hanno dimostrato i primi investigatori Russi (V. H. Bekhterev, V. K. Khoroshko ed altri) ed altri ricercatori stranieri, una lesione massiva dei lobi frontali (ci occupiamo qui solo delle lesioni massive delle superfici convesse dei lobi frontali) di solito comincia a manifestarsi con un disturbo della motivazione. Abbiamo condotto un’analisi speciale su questo fenomeno [vedere (1) A. R. Luria, Il disturbo dell’orientamento e dell’azione nelle lesioni cerebrali (1945); (2) B. V. Zeigarnik, La relazione tra i fattori cerebrali locali e quelli generali nel trauma del cervello (1944); (3) S. Ya. Rubinshtein, La riabilitazione nelle ferite belliche del cervello (una analisi psicologica della perdita di funzione nella sindrome frontale), dissertazione, Istituto di Psicologia dell’Accademia delle Scienze Pedagogiche, Mosca (1944)].
Abbiamo scoperto che nelle prime fasi dello sviluppo di un tumore al lobo frontale oppure dopo una lesione bilaterale dei lobi frontali, anche se le operazioni formali dell’individuo rimangono relativamente integre, è presente un disturbo evidente della stabilità delle motivazioni interne che dirigono la sua attività. Tutto questo si manifesta frequentemente per il fatto che il paziente comincia a perdere la stabilità del proprio sistema di interessi diventando indifferente, e le sue motivazioni divengono ristrette e primitive. Egli non conduce a termine quanto era intenzionato a fare; i progetti che gli vengono in mente sono transitori e vengono attuati con difficoltà, oppure svaniscono facilmente. Questa incapacità di concentrarsi su un’intenzione interna, e l’assenza di strategie persistenti e dirette ad uno scopo sono tra le principali caratteristiche del comportamento nelle lesioni dei lobi frontali. Se una lesione di questi sistemi si sviluppa sullo sfondo di una disinibizione generalizzata, essa potrebbe assumere prontamente la forma di una distrazione patologica; il paziente che non riesce a portare a termine un’azione diretta ad uno scopo con costanza, comincia a sopprimere l’influenza del “campo esterno” e ad eseguire una serie di azioni casuali, impulsive e prive di motivazione interna. Se questo processo si realizza sullo sfondo di un aumento dell’inerzia dell’eccitazione, la distrazione non ha luogo ma l’attività complessa e plastica del paziente viene sostituita dalla perseverazione di un frammento dell’azione; invece di eseguire un determinato compito complesso in maniera finalizzata, il paziente comincia a ripetere in maniera impulsiva ed irrazionale un singolo movimento oppure un frammento del pensiero.
Le nostre indagini condotte negli ultimi 15 anni ci hanno permesso di descrivere con ragionevole chiarezza le anomalie psicologiche che accompagnano le lesioni massive dei sistemi frontali del cervello.
Tra le principali anomalie psicologiche che si sviluppano in questi casi, riscontriamo la presenza di un disturbo del sistema delle “tensioni mentali”. Come hanno mostrato Lewin e collaboratori, ogni atto finalizzato determina un certo grado di tensione mentale, che perdura fino a quando l’azione viene portata a termine. L’interruzione dell’azione pertanto lascia permanere la tensione, e ciò determina la tendenza a riprendere l’azione che è stata interrotta. Questa tendenza si svela nel corso di ogni azione razionale diretta ad uno scopo, ed è assente solo durante le azioni monotone, che non hanno carattere finalizzato ma che consistono piuttosto di operazioni meccaniche ed automatiche.
Le osservazioni di Zeigarnik (1944) hanno dimostrato che queste tensioni mentali che accompagnano tutte le azioni finalizzate non si sviluppano nei pazienti con lesioni massive dei lobi frontali. Si può osservare dalla Tabella 3 che la tendenza a ritornare all’azione interrotta, che rappresenta un indizio della conservazione della tensione mentale e della stabilità della motivazione, normalmente osservabile nell’82 % dei casi, viene riscontrata solo nel 21 % dei casi nei pazienti con lesione della regione frontale, e nel 66 % dei casi nelle lesioni ad altre parti del cervello.
Queste scoperte indicano che la stabilità della tensione mentale causata dall’azione diretta ad uno scopo viene considerevolmente ridotta nelle lesioni delle divisioni frontali del cervello, e che indubitabilmente i lobi frontali del cervello sono implicati nell’organizzazione della stabilità della motivazione interna. Le osservazioni hanno dimostrato che nei pazienti con lesioni frontali, il disturbo della stabilità della motivazione può assumere forme molto particolari, e può determinare la disintegrazione delle forme complesse dell’attività consapevole e finalizzata.
Secondo le indagini di Lewin e collaboratori, ogni attività umana consapevole viene controllata da una struttura complessa di concetti che nascono continuamente nella mente e attraverso le richieste che questa effettua sul proprio stesso lavoro. Una caratteristica particolare di questa struttura di concetti è che una persona di solito regola il livello delle richieste che presenta a sé stesso, a seconda del successo o del fallimento dell’azione che è stata eseguita in precedenza. Se l’azione è stata completata con successo, egli comincia ad avanzare maggiori richieste a sé stesso, e il livello delle richieste per l’azione successiva verrà innalzato. Se l’azione dà luogo ad un fallimento, ed egli constata che essa si trova oltre il limite delle proprie capacità, ne consegue una naturale condizione di insoddisfazione, e la persona abbassa il livello della sua richiesta successiva al fine di prevenire questo stato di insoddisfazione in futuro.
Questo modello è tipico di ogni attività mentale normale che si accompagna ad un controllo personale. Esso può essere seriamente disturbato, tuttavia, in caso di lesione dei lobi frontali.
Le osservazioni hanno dimostrato che le lesioni dei sistemi frontali si caratterizzano non solo per il fatto che le tensioni mentali si sviluppano con difficoltà e sono instabili, ma anche per il fatto che il paziente molto spesso non è in grado di applicarsi consciamente alla propria azione, di valutare le proprie possibilità di successo e, cosa maggiormente importante, di modificare il proprio comportamento conseguentemente. Di regola il raggiungimento oggettivo del successo non riesce a produrre in lui una qualche condizione emozionale di soddisfazione autentica, e non riesce ad assicurare una qualsiasi modificazione del livello delle richieste effettuate successivamente a sé stesso; allo stesso modo un’azione che non ha avuto successo non produce una reazione di insoddisfazione e non conduce ad un abbassamento del livello delle richieste sulla base della valutazione fatta circa il fallimento precedente. La struttura della tensione mentale nei pazienti con lesioni dei lobi frontali non si fonda più sul successo della loro propria attività, ma comincia ad assumere un carattere casuale.
Gli esperimenti di Zeigarnik hanno consentito di esprimere questo fatto significativo nella forma di curve molto dimostrative. Al soggetto sottoposto a test viene data una serie di compiti di difficoltà disuguale. Questi compiti sono concepiti in maniera tale da formare una serie di azioni di difficoltà crescente, che può essere misurata, ed il risultato della misurazione è conosciuto dal soggetto. Dopo che egli ha portato a termine un compito, può scegliersi il compito successivo, di cui conosce il grado di difficoltà. L’esperimentatore può creare condizioni che faciliteranno la soluzione dei compiti permettendo che essi possano essere portati a termine con successo, oppure che li rendano più difficili o anche impossibili. Si osserva come il successo oppure il fallimento del compito influenzi il soggetto nella scelta del livello successivo delle richieste. Nella Fig. 57 vediamo molte curve tipiche del cambiamento del “livello delle richieste” nei pazienti con lesioni del sistema frontale del cervello.
Caratteristicamente questi pazienti mostrano l’assenza di ogni relazione tra la tensione mentale e la valutazione conscia delle proprie azioni; ciò è mostrato chiaramente nel riassunto dei risultati ottenuti da Zeigarnik (Tabella 4).
Come si può vedere il successo o il fallimento del lavoro svolto vengono tenuti in una qualche considerazione, e in accordo avvengono delle modificazioni nella tensione mentale in quasi tutti i soggetti, ma solo nel 6% dei pazienti con lesioni dei lobi frontali. Viceversa, le curve della tensione mentale hanno carattere completamente casuale, mostrando che il lavoro svolto non ha effetto sul corso delle azioni successive (cosa che non avviene nei soggetti normali), nella grande maggioranza dei pazienti con lesioni dei sistemi frontali.
Le osservazioni che abbiamo descritto sono di importanza fondamentale per determinare correttamente fino a che punto un paziente con una lesione dei sistemi frontali possa essere in grado di eseguire il lavoro sistematico e consapevole su sé stesso che sarà necessario per la compensazione del proprio difetto. Se una percentuale elevata di pazienti con una lesione dei sistemi frontali non riesce a prendere in considerazione il risultato del lavoro svolto, e se essi non riescono a modificare la struttura della propria tensione mentale e a regolare il proprio “livello delle richieste” da presentare a sé stessi in accordo con il successo o il fallimento del lavoro svolto, allora è abbastanza chiaro che ogni forma di lavoro intensivo su sé stessi viene deprivato di uno dei suoi stimoli più essenziali, e verrà effettuato in maniera meccanica o inerte. È anche piuttosto evidente che tali pazienti presenteranno una capacità limitata ad affrontare un addestramento prolungato e sistematico. La ragione principale di questa difficoltà nell’addestramento non sarà tanto la mancanza dell’abilità tecnica ad eseguire determinate operazioni quanto il disturbo della stabilità e della consapevolezza della motivazione, che solitamente si rispecchia nel corso e nei risultati dell’attività del paziente.
Le nostre osservazioni hanno confermato questa concezione ed hanno dimostrato che tali difficoltà insorgono effettivamente nel corso dell’addestramento di molti pazienti con lesioni massive dei lobi frontali del cervello.
Uno degli esperimenti più semplici per dimostrare l’inerzia di questi pazienti nel corso dell’addestramento come risultato del disturbo della motivazione è l’apprendimento sistematico di un insieme di vocaboli a memoria. Con questo esperimento possiamo stabilire le capacità di addestramento di questi pazienti nel modo più semplice. Forniamo qui di seguito alcuni esempi di tali osservazioni.
L’esperimento più semplice di questa serie è quello di imparare a memoria una serie di parole che non hanno relazioni tra di loro. Il soggetto legge un gruppo di dieci parole semplici e che non si trovano in nessuna relazione (per esempio; casa, tavolo, notte, ago, torta, e così via); gli viene chiesto di ricordare queste parole e di ripeterle nella sequenza voluta. Il numero delle parole ricordate è noto; l’intera serie viene quindi ripetuta e al soggetto viene chiesto di ripetere nuovamente le parole, aggiungendo a quelle ricordate precedentemente anche quelle che questa volta è riuscito a trattenere. Questa ripetizione della medesima serie continua per diverse volte, ed il numero delle parole ricordate viene registrato ogni volta. Con i risultati così ottenuti viene disegnata una curva.
Normalmente questa curva mostra una salita graduale (Fig.58, A), e dopo poche ripetizioni il soggetto è in grado di riprodurre l’intera serie di parole.
Le curve di “apprendimento a memoria” presentano caratteristiche differenti nei soggetti con lesioni del cervello. Le lesioni massive del cervello, ad eccezione dei lobi frontali, solitamente si associano ad un decremento della capacità di imparare tale serie, oppure ad una marcata tendenza all’affaticamento. Nel primo caso il paziente dapprima trattiene solo pochissime parole, e questo numero aumenta molto lentamente; spesso il paziente non riesce a riprodurre la serie per intero, la curva sale molto lentamente senza mai raggiungere l’apice (Fig. 58, B). Talvolta il numero delle parole trattenuto dopo le presentazioni successive aumenta dapprima lentamente, ma dopo 3 o 4 ripetizioni essa comincia a cadere ed il paziente mostra segni di fatica mentale. Solitamente in questi casi la fatica viene evidenziata da una curva che si abbassa andando a formare una campana sul grafico (Fig.58, C).
Nei pazienti con lesioni massive dei lobi frontali, il processo dell’apprendimento a memoria ha caratteristiche piuttosto differenti. Nell’affrontare il compito il paziente mostra una tipica inerzia. Di solito egli ascolta passivamente la serie di parole, e riproduce subito alcune di esse senza particolari sforzi. Dopo avere riprodotto queste (di solito pochissime, non più di 3 o 4 o raramente 5), il paziente non effettua altri tentativi attivi per cercare altre parole nella sua memoria, e si annoia subito dell’esperimento. Se la stessa serie viene presentata una seconda volta si osserva un comportamento simile: il paziente riproduce le poche parole che gli vengono in mente, talvolta le stesse della prima presentazione, talvolta altre differenti, ed anche questa volta non mostra una ricerca attiva per ricordare un numero maggiore di parole. Il numero trattenuto rimane lo stesso. A causa di questo disturbo della tensione mentale si ottiene una curva di memorizzazione inerte, di cui forniamo alcuni esempi nella Fig. 58, D.
Come si può vedere nella Tabella 5, questa curva inerte caratterizza quasi esclusivamente i pazienti con lesioni dei lobi frontali.
Un esame delle curve di memorizzazione mostra che i pazienti con lesioni massive delle divisioni frontali del cervello sono spesso incapaci di sostenere un’attività intensa finalizzata all’apprendimento a memoria, ed essi quindi non compiono progressi apprezzabili nel loro lavoro. Ulteriori indagini condotte da Zeigarnik, che lavora presso il nostro laboratorio, hanno dimostrato che questo disturbo della stabilità della motivazione e dell’attività dei pazienti con lesioni dei sistemi frontali si riflette non solo nell’efficienza generale, ma anche nella struttura psicologica della loro attività; esso impedisce lo sviluppo di nuove tecniche e determina un serio disturbo della successione normale delle fasi consecutive dell’addestramento di questi pazienti.
Per investigare la struttura della loro attività durante l’addestramento, Zeigarnik selezionò un gruppo di sette pazienti con ferite estese del lobo frontale sinistro ed una caratteristica sindrome clinica del comportamento spontaneo, ed un gruppo numericamente uguale di pazienti con ampie lesioni delle divisioni posteriori dell’emisfero sinistro (regioni temporali e parieto-occipitali). Tutti questi pazienti vennero sottoposti ad esercizi regolari per un periodo di due settimane, che includevano l’apprendimento della poesia, la composizione di mosaici e la classificazione di oggetti.
I pazienti con lesioni delle divisioni posteriori (gnosiche) del cervello incontrarono una difficoltà considerevole in questo compito, eppure ottennero un successo ragionevole con gli esercizi. Per apprendere una poesia essi potevano facilmente adottare i metodi che gli erano stati mostrati (per esempio, cominciando ad imparare un poema in parti, cercando di comprendere ogni verso e la sua relazione con il resto), facendo un uso attivo di questi metodi nel corso dell’addestramento successivo.
I pazienti con ampie lesioni dei sistemi frontali si comportavano in maniera molto differente. Di regola essi non utilizzavano i metodi attivi per aiutarsi ad eseguire i compiti in maniera razionale; utilizzavano prontamente i metodi che venivano forniti loro, ma non riuscivano a trattenere questi metodi e ad applicarli negli esperimenti successivi, ed il loro addestramento non veniva convertito in un sistema stabile.
Per esempio, se dovevano comporre un mosaico senza l’aiuto di un piano, essi non badavano ai lineamenti di base della figura che venivano suggeriti loro, si precipitavano ostinatamente a continuare su linee incerte e casuali, e non riuscivano a comprendere i metodi di lavoro che erano stati loro forniti; dopo una lezione cominciavano quella successiva nello stesso identico modo. Un comportamento simile venne osservato in altri esperimenti.
Un tratto caratteristico di tutti questi esperimenti era che i pazienti con lesioni estensive dei lobi frontali non riuscivano ad impadronirsi di un sistema di addestramento, né ad assimilare i metodi di addestramento; questi metodi non venivano incorporati all’interno del proprio comportamento e la loro attività complessiva rimaneva inerte come prima, senza applicare in alcun modo i metodi razionali, ma scadendo facilmente in forme di comportamento meccaniche ed irrazionali.
L’addestramento dei pazienti in cui manca la stabilità della motivazione quindi non conduce allo sviluppo e alla ritenzione di metodi interni di organizzazione razionale dell’attività.
I fatti appena descritti, che dimostrano l’impossibilità di produrre un solido orientamento interno accompagnato da una tensione mentale stabile nei pazienti con lesioni dei lobi frontali (l’impossibilità di stabilire un orientamento soggettivo nei pazienti con lesioni estese dei lobi frontali è stata confermata dagli esperimenti speciali condotti dal Professor I. T. Bzhalava nel nostro laboratorio. Questi esperimenti hanno dimostrato che nei pazienti con lesioni dei sistemi frontali è quasi impossibile produrre un orientamento stabile diretto verso una situazione immaginaria. Questi esperimenti, eseguiti con il metodo dall’Accademico Uznadze, hanno dimostrato che per un paziente simile è estremamente difficile contemplare una situazione immaginaria per poi adattarsi ad essa), ci inducono a supporre che un tale paziente incontri una difficoltà considerevole non solo nel corso di un esperimento psicologico, ma anche durante le sue normali occupazioni quotidiane, e che il suo addestramento sotto una qualsiasi forma di attività razionale o di un qualsiasi processo sarebbe reso estremamente difficoltoso a causa del disturbo della sua motivazione.
Questa conclusione venne confermata da Rubinshtein in una speciale indagine condotta durante la guerra nell’Ospedale di Riabilitazione Neurochirurgica (S. Ya. . Rubinshtein. La riabilitazione nelle ferite belliche del cervello. Dissertazione (Vosstanovlenie trudosposobnosti posle voennykh travm mozga, 1944). Scopo di questa indagine era di effettuare un’analisi psicologica delle anomalie che possono insorgere nell’organizzazione psicologica della motivazione nel corso di una specifica attività lavorativa e del modo in cui questi difetti possano impedire al paziente di adattarsi al lavoro e alle richieste della vita quotidiana.
Al fine di condurre una ricerca più precisa sul ciclo dei processi lavorativi nei pazienti con lesioni cerebrali, e per eseguire un’analisi psicologica delle principali modalità con cui essi si adattano al lavoro, vennero istituiti dei laboratori speciali presso l’Ospedale di Riabilitazione; qui i pazienti venivano addestrati ad eseguire determinate operazioni di lavoro allo scopo di aiutarli a compensare le proprie disabilità post-lesionali, e per facilitare il loro ritorno ad una utile vita di lavoro. Per questo motivo di solito i pazienti erano fortemente attratti dall’attività di lavoro sistematico eseguita in questi laboratori, e molti dei feriti ottennero in questo modo delle qualificazioni aggiuntive.
L’esperimento descritto da Rubinshtein dimostrò che i pazienti con gravi lesioni localizzate nelle singole parti del cervello si impegnavano attivamente nel lavoro che dovevano portare a termine in questi laboratori. Essi imparavano a risolvere i problemi inaspettati, erano in grado di apprezzare i benefici che sarebbero derivati nella loro vita successiva, frequentavano le sezioni del laboratorio con desiderio di apprendere e regolarità, ed acquisivano l’abilità necessaria. In conclusione, le osservazioni dimostrarono che i pazienti con paresi permanenti, i pazienti con lesioni delle aree postcentrali o premotorie del cervello e con i difetti motori corrispondenti e, da ultimo i pazienti con considerevoli disturbi gnosici, prassici e linguistici acquisivano l’abilità necessaria dopo l’addestramento sistematico cui essi venivano sottoposti in questi laboratori.
L’andamento dell’addestramento nelle abilità lavorative era completamente differente in un’ampia percentuale dei pazienti con lesioni del lobi frontali. Di regola tali pazienti non incontravano difficoltà ad eseguire singole operazioni tecniche; essi controllavano facilmente il movimento di un utensile (una pialla, un ago o un punteruolo), ed imparavano ad eseguire le varie fasi che compongono l’attività lavorativa. Essi non erano soggetti ad affaticamento che era il principale ostacolo all’addestramento dei pazienti con sequele di traumi cranici e di stati di commozione cerebrale. Nondimeno, il processo di addestramento di questo gruppo di pazienti in una determinata operazione di lavoro era talmente difficile che, come dimostrato dall’esperimento, essi erano i soli a non acquisire le abilità necessarie dopo un periodo di tempo prolungato nel laboratorio. I risultati, davvero clamorosi, sono mostrati nella Tabella 6.
Come possiamo spiegarci questo evidente fallimento dell’addestramento ad eseguire un’operazione di lavoro valida in un paziente con lesione dei lobi frontali?
Si può scoprire la ragione del fallimento attraverso l’analisi psicologica del processo di addestramento. Emerge che il fattore principale che impedisce ai pazienti di questo gruppo di acquisire le abilità necessarie è costituito dal difetto della motivazione, che si esprime attraverso un’evidente anomalia dell’attitudine al lavoro ed un disturbo marcato della stabilità delle motivazioni.
L’applicazione mostrata sul lavoro da una persona normale è determinata dal suo atteggiamento relativamente a ciò che egli si aspetta di ottenere come risultato della propria attività. È proprio questo atteggiamento nei confronti dei risultati attesi che conferisce stabilità all’attività di una persona spingendola ad orientarsi verso le operazioni necessarie all’ottenimento dello scopo, ad effettuare le correzioni necessarie se appare un ostacolo nel corso dell’esecuzione dell’attività, e a mantenere un certo grado di tensione per tutto il periodo dell’operazione.
Tuttavia, questo abito mentale nei confronti del prodotto finale è quanto di più grossolanamente difettoso nei pazienti con lesioni massive dei sistemi frontali del cervello. Di regola i pazienti di questo gruppo comprendono prontamente quale sia il tipo di lavoro da compiere; essi accettano il compito loro assegnato (per esempio costruire un telaio in un’officina di carpenteria, oppure fare un’asola in un laboratorio tessile). A prima vista il loro lavoro sembra differire solo di poco dal normale, ma diventa subito evidente che la sua struttura psicologica è profondamente modificata. Il paziente di solito non mostra una disposizione stabile nei confronti dell’obiettivo che è stato fissato, e non si mostra interessato al risultato del proprio lavoro; ciò appare subito chiaro per il fatto che un’operazione determinante per il completamento del compito viene isolata e convertita nell’esecuzione automatica delle procedure mostrate al paziente. Spesso questi pazienti, dopo avere eseguito un’operazione sbagliata, non prestano attenzione a questo fatto, ed invece di fermarsi, ricominciando da capo e correggendo gli errori, proseguono anche se questo lavoro successivo evidentemente non produce risultati utili.
Uno dei pazienti di Rubinshtein con un’ampia ferita bilaterale dei lobi frontali, su richiesta dell’istruttore, costruì una cornice portaritratti nell’officina di carpenteria; a causa delle misure sbagliate il telaio era storto e ovviamente risultò inutilizzabile; gli venne mostrato che il vetro non poteva entrarci e che il telaio era del tutto inutilizzabile; questo, tuttavia, non gli impedì di impegnarsi a continuare il lavoro e di terminare l’intera operazione, che era completamente irrazionale. Quando ad un altro paziente, con una lesione bilaterale dei lobi frontali, che lavorava nel negozio di un sarto, venne mostrato che la cucitura principale dei pantaloni che stava cucendo era stata fatta scorrettamente e che i pantaloni erano asimmetrici, questi non si fermò per correggere il proprio errore, ma continuò tutte le operazioni successive, dicendo: “oh, va tutto bene, alla fine andrà bene …”
Talvolta lo scollamento delle operazioni dal compito principale fa sì che quest’ultimo perda completamente ogni suo significato, e le operazioni diventino così automatiche che il loro carattere patologico risulta evidente per qualsiasi osservatore. Rubinsthein osservò ripetutamente che i pazienti con lesioni massive (solitamente bilaterali) dei lobi frontali cominciavano il proprio lavoro in maniera adeguata, ma continuavano la cucitura con la macchina da cucire anche quando la stoffa era terminata, così che un’azione finalizzata si trasformava in un’operazione priva di significato che veniva eseguita in maniera automatica. Poteva succedere che uno di questi pazienti, cui era stato assegnato il compito di piallare una tavola fino al raggiungimento di un determinato spessore, continuasse a piallare automaticamente anche se ormai aveva consumato tutta la tavola e aveva cominciato ad intaccare il banco da lavoro.
Questo scollamento ricorrente delle operazioni dal compito principale assume talvolta l’aspetto di una strana leggerezza con cui il paziente con una lesione ai lobi frontali si sforza di imparare le istruzioni che gli vengono fornite. Solo di rado questi pazienti chiedono ulteriori istruzioni, o cercano di scoprire il significato di ogni componente dell’operazione, ma al contrario di solito questi pazienti comprendono immediatamente l’operazione e cominciano subito ad eseguirla. Spesso il paziente comprende l’istruzione solo parzialmente ed intraprende l’operazione impulsivamente anche se, quando agisce da solo, essa perde il proprio significato. In tutti questi casi, tuttavia, la facilità con cui i pazienti accettano il compito, e l’impulsività e l’urgenza con cui essi cominciano ad eseguire un’operazione particolare, ha sempre rivelato una tendenza a separare l’operazione dal compito principale, così che lo scopo finale può perdere facilmente la sua reale valenza psicologica.
Nell’addestramento, un paziente che ha perso lo scopo finale della propria attività comincia quindi ben presto ad eseguire una semplice ripetizione meccanica dell’azione suggerita, e questa ripetizione è priva di scopo e fondamento. Per lo stesso motivo, mentre i pazienti con lesioni cerebrali che non intaccano i lobi frontali scelgono di lavorare in un particolare laboratorio (valutandone il valore ai fini del superamento di una disabilità, o per conseguire una maggiore qualificazione utile per il proprio lavoro), i pazienti con lesioni dei lobi frontali generalmente non domandano mai il motivo per cui essi dovrebbero avere bisogno di acquisire quelle abilità che prenderebbero consistenza per mezzo dell’attività lavorativa. Un paziente di questo gruppo scelse autonomamente di seguire l’addestramento in sartoria, cosa che fece per un lungo periodo di tempo, fino a quando fu evidente che le sue cattive condizioni non gli permettevano assolutamente di mettere in pratica le nuove acquisizioni. Le indagini longitudinali successive condotte da Rubinshtein dimostrarono che questi pazienti utilizzano molto di rado le loro capacità nella vita quotidiana e che la peculiarità psicologica della loro attività, cioè la separazione di una singola operazione dal compito nel suo complesso e la sua trasformazione in un unico atto automatico e privo di significato, rappresenta la caratteristica dominante che compare nel loro lavoro. Questo fattore di base non determina solo la peculiare natura psicologica della loro attività, ma fa insorgere anche una considerevole difficoltà nell’assimilazione di queste abilità così come esse vengono insegnate.
Un esempio molto eloquente della perdita del fattore di correzione viene fornita dai pazienti che erano stati addestrati a fare delle asole, attività che è stata indagata da Rubinshtein. La principale caratteristica di questo lavoro, per molti versi un modello perfetto di atto complesso e coordinato, è che il soggetto, che trattiene l’abito nelle proprie mani, deve infilare l’ago dal lato opposto dell’abito, che non è sotto il suo controllo visivo; questa azione, condotta “alla cieca”, deve essere eseguita sulla base di una valutazione preliminare della distanza necessaria; nelle prime fasi di apprendimento dell’abilità questo viene fatto attraverso un calcolo conscio, ma nel corso dell’automatizzazione successiva, essa comincia ad essere effettuata in maniera automatica sulla base delle strutture cinestesiche che sono ormai state assimilate. Se la puntura dal lato opposto non è corretta, il soggetto deve interrompere l’azione che ha cominciato, rimuovere l’ago, e reinserirlo nella posizione corretta. Questa necessità di eseguire una correzione secondaria, particolarmente evidente nelle prime fasi dell’apprendimento dell’abilità, crea una situazione conflittuale in cui la tendenza a completare l’atto già iniziato si scontra con la tendenza ad interrompere l’azione per correggerla.
Il soggetto normale non ha grandi difficoltà ad imparare questo compito, introducendo inizialmente le correzioni secondarie necessarie per rimediare ai propri goffi movimenti, rimuovendo l’ago che è stato inserito in maniera scorretta, e correggendo i propri errori, sviluppando di conseguenza le abilità necessarie e costruendo una struttura automatica ma vantaggiosa di questo atto motorio.
Il paziente con una lesione estesa delle divisioni frontali del cervello si comporta in maniera molto differente in una situazione come questa. Se infila l’ago nel punto sbagliato (cosa che succede di frequente, dal momento che questa azione deve essere eseguita senza controllo visivo), egli non riesce ad interrompere in tempo il movimento e a rimuovere l’ago. Una volta che il movimento è stato iniziato, esso continua automaticamente fino alla fine; il suggerimento tempestivo di interrompere l’azione intrapresa non ha successo, non si sviluppa la tendenza a fermare l’azione, e spesso è necessario trattenere letteralmente le sue mani per porre un freno al suo impulso ed impedirgli di completare l’azione e ovviamente di guastare il lavoro. Come sottolinea Rubinshtein, l’impulsività di questo atto nei pazienti con lesioni dei lobi frontali, si spiega con il fatto che l’anticipazione dei risultati cessa di giocare un ruolo decisivo, e così essa interferisce con lo svolgimento del lavoro in cui l’esecuzione concreta di un singola operazione non conduce all’assimilazione pratica dell’abilità nel suo insieme. In questo caso l’unico metodo per ottenere l’abilità necessaria è quello di sostituire la correzione interna dell’azione, che nel paziente è disintegrata, con una correzione esterna proveniente da qualche altra parte. Se l’istruttore siede di fianco al paziente e ogni volta gli dà l’ordine di fermarsi e di togliere un ago posizionato in maniera scorretta, il paziente subordina la propria azione a questo controllo esterno e comincia ad eseguire il lavoro in modo appropriato e a conseguire risultati utili. Tuttavia, non appena cessa il controllo esterno, per tentare di passare alla correzione interna di quell’azione particolare, il paziente si dimostra nuovamente incapace di trattenersi e l’atto si disintegra di nuovo.
Forniamo di seguito una descrizione davvero tipica di questo fatto importante, tratta dal lavoro di Rubinshtein.
Il paziente Kozh., di 43 anni, subì una ferita massiva del lobo frontale destro, accompagnata dalla perdita di un grande quantitativo di sostanza cerebrale, seguita da sepsi prolungata della ferita e fuoriuscita di liquido cerebrospinale dal corno anteriore del ventricolo laterale destro. Dopo un lungo periodo di trattamento il paziente recuperò la sua salute fisica: non mostrava segni di paresi o di disturbi sensitivi, i suoi riflessi erano normali, ed un’ispezione preliminare aveva evidenziato solo una lieve latenza nell’eseguire istruzioni ed una perdita della spontaneità dei suoi processi mentali.
Le osservazioni condotte sul paziente nei laboratori, tuttavia, mostravano una risposta all’addestramento eccezionalmente scarsa.
Quando gli veniva assegnato il compito di fare un’asola, imparava facilmente le tecniche necessarie per infilare l’ago e farlo passare dall’altra parte dell’abito. Se, tuttavia, egli infilava l’ago nel punto sbagliato, non era in grado di interrompere in tempo il movimento ma continuava a spingerlo così che non riusciva a correggere il proprio errore. Il risultato di quest’atto impulsivo era che, una volta terminato, il lavoro si dimostrava insoddisfacente e recava le tracce dei suoi errori (Fig.59, A).
Per cercare di correggere i suoi errori, l’istruttore doveva sedersi vicino al paziente e tenere la sua mano per impedirgli di proseguire il movimento quando l’ago veniva infilato nel punto sbagliato. Anche dopo questo allenamento, tuttavia, il paziente ottenne solo un miglioramento modesto, e continuò ad eseguire movimenti imprecisi ed impulsivi (Fig. 59, B). L’istruttore pertanto cominciò ad insegnare al paziente ad eseguire ciascuna cucitura su comando. Trasformando l’azione in una serie di atti successivi, il paziente cominciò ad eseguire il lavoro adeguatamente e l’asola fu completata in maniera soddisfacente. (Fig.59, C). Tuttavia, non appena l’istruttore lasciò che il paziente lavorasse da solo senza aiuto, l’azione divenne nuovamente impulsiva ed il risultato finale scarso (Fig. 59, D). La proposta di ulteriori esercizi migliorò di pochissimo l’abilità del paziente. Spesso, mentre provava ad eseguire l’operazione, il paziente diceva a sé stesso: “Non devo avere fretta, devo vedere se va bene …”, ma queste parole non avevano effetto, e non agivano come regolatori del comportamento; la facilità con cui l’operazione si distaccava dal compito principale permaneva ed il risultato del suo lavoro era limitato. Solo quando l’istruttore sedeva a fianco al paziente e lo curava attentamente, talvolta interrompendolo, l’azione veniva suddivisa in operazioni distinte e controllate, ed il paziente era in grado di trattenere gli impulsi inadeguati ed ottenere un prodotto soddisfacente (Fig. 59, E).
Questo esempio è eccezionalmente importante. Ci permette di comprendere meglio la causa della difficoltà ad ottenere un allenamento delle abilità complesse in un paziente con una lesione dei sistemi frontali e di convertirle in un’attività spontanea e precisa, e ci indica i metodi per superare adeguatamente questa grave disabilità.
Queste scoperte, corroborate da altre relative a molte forme diverse di attività, dimostrano che la difficoltà nell’addestrare i pazienti con lesioni massive dei sistemi frontali non insorgono principalmente da difetti tecnici, ma da una disintegrazione profonda della motivazione o, più precisamente, dalla disintegrazione della stabilità dell’abito mentale del paziente nei confronti dell’operazione di lavoro e dell’obiettivo. Per il fatto sopra menzionato – la facilità di sconnessione dell’operazione dal compito come un tutto unitario, il paziente non mantiene più una vigilanza costante sulla correttezza delle proprie operazioni; le operazioni vengono eseguite senza riferimento alla loro adeguatezza e l’abilità necessaria non si sviluppa. L’unico modo per superare questo difetto, che deriva dalla disintegrazione della regolazione interna dell’attività, è quello di sostituirla con una regolazione esterna, e di trasformare l’atto spontaneo in un’azione che si realizza sotto una costante supervisione esterna. Questa sostituzione della “volontà” difettosa del paziente con quella di un’altra persona, ed il passaggio da un comportamento spontaneo ad uno reattivo ci mettono a disposizione il metodo principale per superare il difetto che si accompagna ad una lesione dei lobi frontali.
Dal punto di vista psicologico, questo metodo di controllo esterno del comportamento di un paziente con una lesione del lobo frontale non è per niente casuale.
Lo studio psicologico condotto da numerosi ricercatori Sovietici e, in particolare, da Vygotskii sullo sviluppo delle forme più elevate dell’attività mentale umana ha dimostrato che questo avviene principalmente per effetto della trasformazione graduale di un’attività precedentemente condivisa da due persone, cioè tra un adulto ed un bambino (forme di comportamento “interpsichiche”) a forme di regolazione interna (“intrapsichiche”) dell’attività del bambino stesso. Nelle prime fasi dell’infanzia e prima che il bambino frequenti la scuola, il comportamento non segue più la categoria elementare istintiva e viene regolato dall’esterno – dalla situazione esterna o da una persona adulta. La madre mostra al bambino un oggetto, lo denomina, e lo indica con il dito; il bambino segue il suo sguardo, seleziona l’oggetto tra gli altri che gli sono attorno, e lo prende. La madre gli dice di compiere una determinata azione, ed il bambino esegue l’istruzione. È solo molto più tardi che questa attività, regolata esternamente, dà il via ad un’azione “volontaria” regolata internamente che, come hanno dimostrato gli psicologi, continua per molto tempo a poggiare su meccanismi di dialogo interiore, che in questo modo rivelano la propria connessione genetica con le forme interpsichiche precoci del comportamento.
È interessante notare che lo sviluppo delle forme intrapsichiche (“volontarie”) del comportamento, le cui pietre miliari principali sono rappresentate dal 4° e dal 7° anno di età, coincide con il periodo in cui lo sviluppo e la differenziazione fine della struttura neuronale dei lobi frontali (come dimostrato da indagini morfologiche condotte da ricercatori Sovietici e di altri Paesi) si manifestano in maniera particolarmente intensa e queste strutture, organizzatesi durante il periodo precedente, cominciano ad operare in maniera evidente e ad eseguire forme complesse di regolazione interna.
Quando cerchiamo di superare un difetto della regolazione interna dell’attività in un paziente con una lesione dei sistemi frontali ritornando alle forme di comportamento “interpsichiche” regolate dall’esterno, stiamo solamente ripristinando la struttura psicologica del suo comportamento nelle stesse forme presenti prima che i sistemi frontali avessero iniziato a funzionare.
Le nostre osservazioni sui pazienti con lesioni estese dei lobi frontali, vennero originariamente condotte nel corso di esperimenti psicologici speciali, e successivamente nelle prove in laboratorio, e poi ripetute nella vita quotidiana dei pazienti. Anche qui, l’incapacità di conservare lo scopo e la “motivazione finale” che dovrebbe stabilizzare il comportamento vengono messe chiaramente in evidenza condizionando completamente la loro intera vita successiva.
L’incapacità di isolare alcuni fattori essenziali della propria vita, di distinguerli da quelli episodici, accidentali e quindi meno essenziali, e di subordinare il proprio comportamento a quei fatti che costituiscono gli “eventi” nella vita di ogni persona e di tralasciare gli “episodi” accidentali, senza cadere nella loro influenza – è tipico della vita successiva di un paziente con un disturbo consistente che interessa i sistemi frontali. Studiando il comportamento di questi pazienti abbiamo spesso osservato che essi non erano in grado di creare situazioni di lavoro, e se venivano assegnati loro dei compiti (come fare l’inserviente, o fare il fuochista), essi si sarebbero istantaneamente “dimenticati” del proprio lavoro, andando in giro con il primo compagno che sarebbe capitato loro di incontrare. Uno di questi pazienti (cui era stato assegnato un lavoro dopo il ricovero) “dimenticava” di essere stato mandato da qualche parte a consegnare un messaggio, e senza esitazione saliva su un treno o su un’automobile in cui gli capitava di imbattersi, e si allontanava da casa senza portare a termine il compito.
Spesso ci siamo accorti che, alla dimissione dall’ospedale, i pazienti non avevano piani per la propria vita futura, e frequentemente non avevano una vera e chiara idea di dove sarebbero andati successivamente, oppure prendevano una decisione a caso. Rubinshtein descrive in dettaglio come un tale paziente, che dall’ospedale era stato mandato a casa dalla famiglia, che non vedeva da diversi anni, veniva distratto da fattori completamente irrilevanti (per esempio, dal suo vicino che si stava recando nella direzione opposta), e saliva su un treno per una località sconosciuta o scendeva dal treno prima di essere giunto a casa, e intraprendeva una faccenda a caso.
Mentre una ferita delle divisioni di proiezione primarie o di quelle secondarie di integrazione gnosica (prassica) del cervello comporta il disturbo di singole operazioni psicologiche di vitale importanza, una ferita estesa dei lobi frontali disturba il controllo superiore di questi processi, conduce alla disintegrazione della motivazione, e determina grossolani disturbi della personalità.
Naturalmente tutti questi disturbi non compaiono in tutti i pazienti con lesioni dei lobi frontali. Abbiamo osservato molti di questi pazienti in cui una ferita del lobo frontale non aveva causato un difetto comportamentale significativo o una disintegrazione evidente dei processi mentali. Le ferite della regione premotoria (frontale posteriore) non determinano mai la disintegrazione della motivazione. Le ferite delle divisioni basali della regione frontale, che talvolta determinano una disinibizione considerevole delle emozioni, non conducono a queste forme di disintegrazione della personalità. Anche le ferite delle superfici convesse dei lobi frontali non causano necessariamente sintomi psicologici marcati. Nondimeno, le ferite massive della regione frontale, accompagnate da distruzione consistente della sostanza cerebrale, e in particolare le ferite bilaterali complicate, in molti casi possono produrre un quadro simile. Non saremmo tuttavia completamente giustificati se ci limitassimo ad affermare che i sintomi psicologici che si sviluppano in seguito ad una lesione dei lobi frontali sono rappresentati dalla disintegrazione della motivazione, dal disturbo delle forme complesse della regolazione volontaria del comportamento, e dalla disintegrazione della stabilità dei processi diretti ad uno scopo che sono specifici del comportamento umano. Queste lesioni possono anche essere associate a segni appena percettibili di un disturbo dello svolgimento dei processi intellettuali o a disturbi comportamentali grossolani, anche se il loro carattere generale rimane invariato.
Queste caratteristiche si riflettono inevitabilmente sulla prognosi del ripristino delle funzioni danneggiate derivanti dalle lesioni belliche del cervello. In questi casi di lesione massiva dei lobi frontali, viene disturbata la motivazione, ed il lavoro attivo e finalizzato che il paziente deve operare su sé stesso diventa impossibile, e la compensazione del difetto per mezzo di questo lavoro viene reso molto più difficile. Questi casi dimostrano che il disturbo della motivazione è il fattore più importante che limita le possibilità di compensare i difetti della funzione cerebrale attraverso la riorganizzazione dei sistemi funzionali.
Questo diventa particolarmente evidente nei casi in cui una ferita dell’area gnosica, prassica o “linguistica” del cervello si accompagna ad una lesione dei sistemi frontali. In questi casi la compensazione dei difetti prassici, gnosici o linguistici, che richiede un impegno particolarmente intenso e finalizzato da parte del paziente, è estremamente difficile; inoltre, la difficoltà non è tanto dovuta al difetto base della funzione particolare, quanto al disturbo della motivazione che è responsabile dello sviluppo completo del difetto. La riabilitazione dei pazienti che presentano queste lesioni combinate si rivela sempre estremamente difficile.
Qual è il metodo psicologico che il medico o l’educatore può utilizzare per compensare i difetti causati dalle ferite delle regioni frontali del cervello?
La risposta a questa domanda può essere trovata in ciò che abbiamo scritto delle pagine precedenti. Dal momento che una lesione dei sistemi frontali può condurre alla disintegrazione delle forme superiori del controllo interiore e volontario del comportamento, l’unico metodo di compensazione del difetto che rimane è quello di sostituire questi fattori di controllo interni con l’organizzazione esterna del comportamento. Se un paziente che non riesce a portare a termine un lavoro senza aiuto riesce ad eseguirlo sotto la costante supervisione dell’istruttore, il solo fatto di includere il soggetto in un sistema di lavoro che fornisca una costante stimolazione esterna per l’azione, creerebbe una struttura esterna per il suo comportamento, dirigerebbe costantemente le sue azioni ed inibirebbe i fattori distraenti, e potrebbe creare le condizioni necessarie per la compensazione del suo difetto e permettere l’esecuzione di attività finalizzate.
È facile vedere che in questi casi i metodi psicologici di ripristino delle funzioni cerebrali disturbate possono essere trasformati in metodi organizzativi, e che il problema delle vie psico-fisiologiche della ricostruzione delle funzioni cerebrali complesse viene sostituito dal problema dell’organizzazione del lavoro e della vita di questo particolare gruppo di pazienti.
Conclusione
L’organizzazione dell’assistenza ai pazienti con lesioni localizzate del cervello. Le affermazioni delle ultime pagine introducono numerosi problemi connessi all’organizzazione dell’aiuto pratico per i pazienti che hanno subito una lesione al cervello che si accompagna ad un disturbo considerevole della funzione cerebrale.
Non prenderemo in considerazione i problemi puramente terapeutici relativi alla cura e alla salute dei pazienti debilitati da lesioni cerebrali, o i problemi connessi alle complicazioni cerebrali tardive come l’epilessia, ma discuteremo l’organizzazione dell’aiuto per i pazienti che hanno subito lesioni cerebrali localizzate dal punto di vista dei problemi psicologici relativi al ripristino della funzione e all’utilizzo della capacità lavorativa residua di questi pazienti. Tenuto conto dell’argomento di questo libro e della limitata competenza dell’Autore, ci limiteremo ai problemi teorici che emergono dalle nostre indagini.
Il primo punto che spicca tra i fatti sopra descritti è che il ripristino delle funzioni di un cervello umano che ha subito una lesione, in un’alta percentuale di casi richiede l’organizzazione di misure speciali finalizzate alla preparazione razionale delle condizioni necessarie per il recupero. Queste misure saranno diverse a seconda del tipo e della situazione della ferita e della fase della malattia traumatica.
Se vi è ragione di supporre che il trauma non abbia distrutto i sistemi funzionali del cervello ma che li abbia solo temporaneamente depressi, queste misure avranno un carattere ben definito.
È solo nelle prime fasi successive al trauma che il trattamento finalizzato a sottrarre il paziente da ogni tipo di attività è necessario e giustificato. Nelle fasi posteriori, tuttavia, l’esclusione del paziente dall’attività non è più necessaria e forse è anche potenzialmente dannosa. Molti autori sottolineano giustamente che l’esclusione di un paziente dalle attività quotidiane, e delle sue funzioni disturbate dal lavoro, conduce inevitabilmente alla fissazione del difetto della funzione; avendo precedentemente messo al riparo i suoi sistemi funzionali disturbati, che versano temporaneamente in uno stato di “inibizione protettiva”, frequentemente il paziente consolida questo stato di inattività e continua ad escludere queste funzioni dal lavoro anche molto tempo dopo che la “inibizione protettiva” ha cessato di essere utile dal punto di vista biologico.
Per questa ragione, nel secondo periodo della malattia traumatica (il suo limite preciso deve essere stabilito in ogni singolo caso attraverso l’osservazione clinica), la tattica del medico deve cambiare sensibilmente. Anche se l’esclusione della funzione danneggiata era inizialmente desiderabile, nel secondo periodo essa deve essere ricollocata nel lavoro attraverso l’incorporazione graduale delle funzioni disturbate. Come recentemente sottolineato da V. A. Gil’yarovskii e H. S. Lebedinskii, in seguito alle loro osservazioni condotte su pazienti con ferite belliche del cervello, in una fase iniziale il paziente deve essere rassicurato che le sue funzioni non sono perdute ma che con il tempo recupereranno, e che egli deve sviluppare le potenzialità funzionali residue ancora in suo possesso. Nel caso dei disturbi afasici del linguaggio si può ottenere questo conversando con il paziente e con esercizi linguistici elementari, che devono consentire al paziente di fare un utilizzo pratico del suo linguaggio residuo e di deinibirlo, facendolo confidare nel fatto che il suo linguaggio non è irrimediabilmente perduto. Nei casi di sordomutismo reattivo si può utilizzare la suggestione per dimostrare al paziente che egli possiede un udito residuo e che il suo linguaggio può essere deinibito. Nei disordini motori è possibile fare partecipare il paziente ad operazioni lavorative, che (come dimostrato dalle indagini di Gellershtein, 1944, e Leont’ev e Zaporozhets, 1945) in riabilitazione non hanno solo un valore locale ma anche uno più generale, modificando l’atteggiamento mentale del paziente ed incoraggiandolo a scoprire e mobilitare le potenzialità residue delle proprie funzioni disturbate.
I metodi speciali di terapia di deinibizione sopra descritti devono essere utilizzati solo congiuntamente alla psicoterapia generale, attivando il paziente ed includendolo nel lavoro, componente essenziale di ogni misura terapeutica.
Nei casi in cui la ferita abbia causato anomalie irreversibili in zone importanti dell’emisfero cerebrale dominante (il sinistro), e abbia condotto a gravi difetti organici che talvolta possono essere superati con la sostituzione delle funzioni ad opera delle zone simmetricamente opposte dell’emisfero sano, il medico non deve rimanere inattivo ed attendere che questo processo di ripristino avvenga senza il suo aiuto. Abbiamo indicato i fattori che in questi casi determinano i limiti del possibile recupero, ma anche qui il processo può essere accelerato da un trattamento razionale. Gli esercizi dell’arto superiore sinistro e l’inclusione dell’emisfero destro non dominante sono corretti in casi come questi e devono trovare una collocazione nel programma riabilitativo sin dalle prime fasi.
Da ultimo, sia il medico che l’istruttore devono lavorare duramente ed in modo sistematico in quei casi in cui una lesione cerebrale locale abbia prodotto dei difetti che possono essere superati attraverso la riorganizzazione dei sistemi funzionali. Abbiamo tratteggiato prima i principi che governano questa ricostruzione. Quando la ferita distrugge le aree di proiezione elementare della corteccia e disturba la funzione sensitiva o motoria, l’unico metodo razionale è quello di trasferire le operazioni precedentemente eseguite dall’organo danneggiato ad un altro organo integro. In questi casi i metodi razionali da utilizzare sono quelli a cui si ricorre nell’addestramento delle persone cieche, nell’allenamento al lavoro della mano sinistra, e così via. L’utilizzo precoce e sistematico di questi metodi può preparare il paziente alla vita quotidiana senza ritardi. È dannoso lasciare il paziente senza alcuna forma di trattamento o di addestramento, e non vi sono scuse per i casi che si vedono talvolta negli ospedali in cui un paziente, cieco a causa di una ferita occipitale, viene lasciato per lungo tempo senza alcun trattamento per compensare il suo difetto (addestramento all’utilizzo dell’alfabeto Braille, metodi pratici per l’allenamento delle persone prive della vista).
Quando la ferita determina la perdita dei processi psicologici complessi (linguaggio, scrittura, lettura, calcolo, gnosi o prassia), il ricorso all’addestramento riabilitativo attivo è d’obbligo. Un’analisi psicologica accurata condotta per mettere in luce la natura del difetto della funzione, ci permette di sviluppare metodi razionali di riorganizzazione. L’addestramento riabilitativo costruito su questa base, dirigendo l’attività del paziente e fornendogli un sistema di metodi razionali, è il modo principale per ripristinare le funzioni danneggiate in casi come questi. Per questa ragione devono essere creati dei dipartimenti per l’attività riabilitativa in tutti gli ospedali di degenza, e devono essere organizzati dei centri di riabilitazione idonei per fornire un sistema di allenamento psicologicamente e razionalmente fondato. È solo con tali mezzi che possiamo sperare di ottenere non solo di salvare le vite di questi pazienti feriti gravemente, ma anche di ripristinare il più possibile le loro funzioni cerebrali danneggiate.
Ci rimane un’ultima questione da discutere, che è al di fuori dello scopo di questo libro ma che è un argomento di grande importanza pratica, cioè il reinserimento dei pazienti con lesioni cerebrali nella società e nel lavoro. Questo problema non è semplice in teoria né in pratica.
Il cervello umano controlla l’intera attività dell’uomo, e le lesioni cerebrali, che hanno solitamente un carattere permanente, escludono il paziente dal lavoro per un lungo periodo di tempo e talvolta anche dalla normale vita di tutti i giorni.
Come può un tale paziente essere riportato all’interno dell’ambiente quotidiano dell’attività sociale e lavorativa? Quali sono le misure da utilizzare perché tutto questo possa essere fatto nel modo più razionale?
Esistono due concezioni opposte per la soluzione di questo problema. La prima, che poggia più su osservazioni pratiche che non su un piano teorico, nasce dal fatto che le lesioni cerebrali localizzate conducono alla perdita di una determinata “funzione”; se questa funzione può essere ripristinata fino ad un certo livello, il paziente si potrà adattare alla vita proprio come un paziente che presenta un qualsiasi difetto periferico. Questa concezione conduce in pratica al rifiuto di tutte le misure speciali, ed ai tentativi di adattare il paziente con una lesione cerebrale a lavorare in accordo con gli stessi principi di reinserimento che si adottano per una qualsiasi altra categoria di persone disabili.
La seconda concezione poggia su basi piuttosto differenti. L’assunzione che ogni lesione del cervello conduce ad un abbassamento delle forme superiori del comportamento astratto e “categoriale” e non ad una perdita di funzioni specifiche, concetto che è stato ripetutamente sostenuto da Goldstein, conduce a conclusioni completamente differenti. Se il comportamento del paziente sprofonda verso forme più concrete, è chiaro che la sua attitudine alla vita ed al lavoro sarà anormale. Bisogna organizzare un ambiente speciale per lui, ed il solito problema dell’adattamento del paziente all’ambiente deve essere sostituito da quello opposto – l’adattamento dell’ambiente al paziente. Nella pratica questo conduce all’istituzione di colonie speciali e di residenze dotate di condizioni ambientali speciali, che semplificano le richieste al paziente e gli permettono di continuare la sua vita in condizioni prive di difficoltà insormontabili.
Come è possibile risolvere questo problema complicato alla luce dei fatti sopra descritti?
È già piuttosto chiaro dalle nostre discussioni precedenti che le ferite cerebrali che differiscono nelle caratteristiche e nella localizzazione determinano disturbi di funzione alquanto diversi. In linea di principio, pertanto, non può esistere una soluzione unica per risolvere il problema di riavviare i pazienti con lesioni cerebrali ad un lavoro adatto. Di conseguenza possiamo avvicinarci alla soluzione di questo importantissimo problema in modo molto più concreto.
I pazienti con lesioni cerebrali estese che presentano l’astenia cerebrale generale che di solito si accompagna a tali lesioni devono naturalmente essere posti in situazioni che prendono in considerazione la loro tendenza all’affaticamento, il rallentamento del metabolismo e la lentezza tipica dei processi mentali. Questa categoria di pazienti necessita di sorveglianza medica, e non ci addentreremo oltre in queste problematiche.
I pazienti in cui una lesione cerebrale locale conduce ad un difetto specifico, che non si accompagna ad una “astenia cerebrale generale” grossolana presentano aspetti del tutto differenti. È alquanto evidente che se una ferita causa disturbi di un’operazione specifica, il paziente conserverà in linea di massima tutte le sue capacità di adattamento alla vita ed al lavoro. Sarebbe un errore creare un ambiente speciale per i pazienti affetti da emiparesi o da cecità centrale.
Nei casi in cui una ferita distrugge parti del cervello implicate nell’integrazione di singole operazioni complesse, determinando la disintegrazione di funzioni come il linguaggio, la scrittura o la lettura, la situazione è molto diversa. Il ripristino della funzione disturbata richiede un addestramento prolungato, e per tutto questo periodo il paziente deve essere mantenuto in condizioni particolari, ovvero in un ospedale riabilitativo, in cui tutti i compiti che gli vengono affidati sono attentamente valutati. Solo dopo una lunga permanenza in uno di questi ospedali il paziente è in grado (se si è ristabilito in maniera sufficiente dal punto di vista fisico) di ritornare a condizioni di vita ordinarie, e frequentemente (se il difetto è sufficientemente localizzato) può tornare a svolgere un’attività lavorativa adatta non troppo impegnativa. Sappiamo che molti pazienti con lesioni localizzate della corteccia cerebrale sono tornati alla vita quotidiana ed al lavoro, scegliendo un’occupazione adeguata ai propri processi mentali residui. Il problema della scelta di un lavoro adatto per i pazienti con lesioni cerebrali localizzate è molto complesso, ma in linea di principio il paziente riesce ad adattarsi al proprio lavoro.
Un problema completamente differente è quello del reinserimento dei pazienti che non mostrano difetti consistenti nel campo di particolari abilità, ma che spesso soffrono di un disturbo davvero evidente della motivazione, che conduce ad una disintegrazione grossolana del comportamento. Questa disintegrazione si rivela per il fatto che il paziente non riesce a prefiggersi uno scopo definito, a conservare un’idea o un’intenzione per un determinato periodo di tempo, oppure ad esibire un comportamento finalizzato e stabile. Senza una costante stimolazione esterna egli non riesce ad intraprendere nessun lavoro sistematico, e la sua “aspontaneità” e vulnerabilità in risposta ad una qualsiasi influenza esterna occasionale determina facilmente la perdita del suo orientamento verso il lavoro così che egli non riesce a mantenere autonomamente la pulsione interiore necessaria per lavorare.
Per questa ragione la condizione principale per il reinserimento dei pazienti di questo gruppo è la creazione di un ambiente speciale, che dirige costantemente il loro comportamento, inibendo i fattori indesiderati e distraenti, e semplificando in maniera notevole quanto viene loro richiesto. Con riferimento al lavoro, queste condizioni assumono una forma definita. Il paziente con un difetto marcato della motivazione può eseguire con successo i compiti semplici se viene guidato ad ogni passo dall’istruttore, se la semplice operazione da compiere viene eseguita nelle condizioni stimolanti di una linea di produzione in serie, oppure da ultimo, se il lavoro medesimo ha una struttura psicologica semplice che non supera i limiti di un’operazione elementare. Il paziente può affrontare questi compiti in un ambiente semplificato ed organizzato in modo tale che tutte le sue azioni vengono determinate da idonee condizioni esterne, indipendenti della sua attività interna. È perfettamente chiaro che queste condizioni richiedono l’organizzazione di un ambiente speciale (fabbriche residenziali speciali oppure occupazioni protette).
Lo studio della struttura psicologica dei difetti derivanti dalle ferite cerebrali pertanto non facilita solo la diagnosi corretta di queste lesioni, ma fornisce anche la base per un adeguato addestramento finalizzato al ripristino e per un reinserimento razionale dei pazienti sofferenti a causa delle gravi conseguenze provocate da lesioni belliche.